Le porte della notte si erano aperte da poco. In cuor mio sapevo di non doverci sperare più di tanto, ma lo feci ugualmente. Per quello mi ritrovai per la strada, con un ritmo pop qualsiasi alle orecchie a farmi compagnia (falsa compagnia, serviva solo a farmi avere un passo veloce), la brezza gelida che penetrava attraverso il colletto sbottonato della camicia. Mi sentivo così piccolo, alle 4 di notte in giro per Roma, da solo. Eppure è stata una delle mie esperienze più belle della mia vita.
Il freddo diventò ancora più pungente quando iniziò a piovere, in testa solo il suo rifiuto, ed il pensiero di chi avevo perso. Non sentii le gambe stanche, ne tanto la musica. Sentivo freddo ovunque. Il fegato si comprimeva a mo' di pugno, e premeva sullo stomaco, sembrava stessero facendo a botte. Poi un batticuore improvviso, il mal di stomaco non era opera del rifiuto, ma della serata e dei miei pensieri che si accoppiavano confusamente nella mia testa. I locali non sono ciò che di più accogliente esiste al mondo, diciamolo, e devi avere stomaco per entrare in certe dinamiche. In tutta la serata ero circondato da falsi miti quali il rilassamento muscolare, l'apertura dei pori ed il benessere della pelle e della persona.
Invece ero sull'isola dei giocattoli difettosi. Ce n'erano che vagavano senza meta, alcuni cercavano un padroncino, altri erano giocattoli che volevano giocare con altri giocattoli. Giocattoli vuoti, usati, senza aspettative, col biglietto d'ingresso per entrare sull'isola che li farà sentire soltanto più soli. Essere vuoti insieme non significa riempirsi, significa sciacallare quanto di più buono c'è nel prossimo e farlo tuo, svuotare le poche briciole rimaste di un contenitore già vuoto, di un tesoro già saccheggiato.
Omologati tutti, da una chiave appesa al collo o al braccio, il nostro numero di riconoscimento, la nostra via di fuga per tornare alla vita vera. Quella in cui sei in costume e devi recitare la parte di essere pensante e acculturato, il tipo di persona con dei principi che non farebbe mai determinate cose.
E di nuovo vorrei accontentarmi di manichini vuoti, di corpi senza volto e senza nome, per sentirmi almeno qualche volta compreso da qualcuno che sarà solo più vuoto di me.
Arrivato a Termini entrai nel treno che mi avrebbe riportato a casa, era completamente al buio e solo i fari esterni illuminavano i sedili che sembravano i posti più comodi e puliti dell'universo. La musica alle orecchie non mi fece rendere conto di quanto anche lì fossi solo, mi addormentai e svegliai di continuo con l'ansia che qualcuno avesse potuto farli del male, a quell'ora della notte, da solo in un treno completamente buio. La certezza di tornare a casa alle sei del mattino non mi rincuorava più di tanto, avrei preferito dormire su una panchina che tornare a casa a quell'ora e cercare di inventare una storia credibile e plausibile sul perché fossi tornato a casa ad un orario tanto indecente. Però, per quanto quella solitudine faceva male, per quanto mi spaventasse, mi ci cullavo comunque e ne posavo sopra tutte le mie considerazioni della serata, e la tristezza che ne derivava. Tutto quel senso di inadeguatezza non lo sentii addosso, perché lo appoggiai sopra a tutta la situazione che si era creata, all'ansia e inquietudine della notte, che erano problemi decisamente più grandi di quello che mi succedeva dentro.
Come quando ti rompi un dito per non sentire la gamba spezzata. Il dolore più grande usato come culla per i dolori più piccoli, ed il completo spegnimento di emozioni e dell'individuo stesso per un'oretta o due, fecero sì che quella sera fu in contemporanea la serata più sola e più bella della mia vita.
<> questa è la parte che mi ha colpito di più
RispondiEliminaForse è perché la capisco di più....